Affissioni: una vergogna la bocciatura della Delibera di iniziativa popolare
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Appunti sparsi e 10 spunti per Roma

25/11/2011

Dal Municipio Roma XI  

Appunti sulla provincia-Italia…

 

L’Italia è un Paese in cui l’apparenza e la realtà sono difficilmente distinguibili. Da quando la crisi globale e le manovre nazionali hanno cancellato dalla scena ogni altro tema, a far notizia e a destare preoccupazione sono più lo spread, il default, i tassi, gli acronimi delle istituzioni sovranazionali ed ineffabili mercati che non la miseria in aumento, la precarietà esistenziale, l’impoverirsi del lavoro tradizionale, l’esplosione del ceto medio e la crescita produttiva vicina allo zero. Si può obiettare che un legame tra i due mondi c’è, che uno shock degli istituti creditizi porterebbe a conseguenze drammatiche sull’economia reale, su imprese e persone. Malgrado ciò il racconto prevalente appare lo stesso capovolto. Gli elementi metafisici della finanza al centro, in angoli lontani le condizioni materiali di vita e lavoro, i rapporti sociali, la democrazia sostanziale. Svaniscono, come i governi nazionali…

Nulla di strano, ci si è abituati all’illusorietà già da qualche tempo. Da quando un Paese strutturalmente in difficoltà è stato nascosto dietro la narrazione virtuale di una penisola opulenta, seduta stabilmente al tavolo delle elite mondiali. Per magia dei mass-media e delle cordate che li gestiscono l’abbondanza è rimasta in primo piano, a determinare aspettative sempre più spesso inarrivabili, il declino sullo sfondo.

Nel tentativo di orientarsi a sinistra, nel complicato passaggio segnato dall’uscita di scena di Berlusconi per mano di banche e finanza e non per moti popolari, con gli elementi di trasformazione e sollievo generati dal cambio al vertice ad essere decisamente poco sostanziali, è bene ripartire da qui, dal mondo reale di oggi, dalla nuova collocazione nella periferia dell’assetto globale. In un progetto strategico serve la consapevolezza di non stare più al centro come eravamo abituati, che lì ci sono Asia e Americhe e solo dietro un pezzo d’Europa, in cui l’Italia peraltro non è compresa; nella lettura di fase la cognizione che la liberazione dal berlusconismo non c’è ancora stata e che il governo Monti mira a stabilizzare un quadro neocentrista nel medio e lungo periodo. Si accinge a farlo diversamente dal populismo, ma con altrettanta commistione tra interesse pubblico e privato assicurata da manager e azionisti di aziende di prim’ordine, come dimostra quel Corrado Passera già amministratore delegato di Poste Italiane e Banca Intesa, fino a ieri il più importante dei banchieri. Le indicazioni della Banca Centrale Europea, raccolte dall’attuale maggioranza bulgara, danno il segno di un esecutivo già ampiamente orientato ad aggravare lo scenario di ristrettezze e disgregazione, con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano punto di riferimento unico sia dentro che oltre i confini.

Viviamo in un’apparente fuga dalle responsabilità della rappresentanza parlamentare, incapace di esprimere un esecutivo e ostile al ricorso alle urne. Essa sta dentro un generale stato d’eccezione e una sospensione delle regole appena camuffata dai voti unanimi delle Camere. Karl Schmitt parlava di ‘dittatura commissaria’ non totalitaria, similmente si afferma una forma sperimentale di governo dell’Europa per delineare la risposta neoliberale alla crisi del capitalismo, una tecnocrazia inserita in un’ampia rete di imprese transnazionali, istituti bancari, patrimoni, fondi, agenzie di rating. Con una rivoluzione dall’alto garantisce tanto il funzionamento politico che la ripresa del controllo su un ciclo economico impazzito, superando le sembianze puramente monetarie e attuando una governance diretta inusuale, mantiene in vita un simulacro di democrazia e gestisce il contemporaneo regime di accumulazione. Prova a riacquistare posizioni nella competizione globale in cui l’Europa sta soccombendo, sotto il ricatto esplicito per le popolazioni che se non si fa così si aprirà la catastrofe e il caos. Opera al di fuori del meccanismo del suffragio universale, come d’altronde l’insieme delle istituzioni continentali, che una legittimazione popolare non ce l’hanno mai avuta.

In alternativa si dovrebbe credere che la crescita del Pil (2,1%), l’avvio della nazionalizzazione della fallita Banca Dexia e gli altri risultati siano stati davvero conseguiti dal governo dimissionario del Belgio, che nei suoi 18 mesi di ordinaria amministrazione è riuscito pure a ricoprire la presidenza di turno dell’Ue. La stessa regia europea che determina e tiene quel quadro nazionale a noi riserva un banchiere inserito nella ragnatela di potere che ha come nodo Goldman Sachs, come a quella Grecia vicina geograficamente e che spesso ci sta dietro nelle graduatorie continentali

L’Italia si è accomodata stabilmente agli ultimi posti dell’Europa a 27, già prima del Big Bang della crisi nel 2008. Nel linguaggio arido delle statistiche ufficiali si sintetizza un passaggio epocale avvenuto tra la metà dei Novanta e il primo decennio del nuovo millennio, che ha portato una debolezza prima sconosciuta dal punto di vista sociale ed economico, insieme alla gretta regressione del quadro culturale e politico. Lo ha messo bene in luce Marco Revelli elaborando gli studi della Commissione d’Indagine sull’Esclusione Sociale (Cies) che ha presieduto dal 2006 al 2010. Ripercorrerli è straordinariamente esplicativo.

Crescono le fila dei poveri e di quelli che si accingono a diventarlo. Tra il 2001 ed il 2006 è aumentata la ‘povertà soggettiva’, da meno del 50% al 75%. Siamo al quart’ultimo posto del continente per rischio povertà (20% nel 2007 davanti solo a Lettonia, Bulgaria e Romania), al penultimo posto (63%) seguiti dalla sola Grecia (76%) nella ‘percezione soggettiva della povertà’, penultimi pure per condizione dei minori (25%), peggio di noi solo la Romania.

Se dalla dimensione percettiva si passa ai dati reali la musica non cambia. L’Italia è crollata di 18 punti in quanto a Pil pro capite (da 120 a 102) perdendo più di tutti nel decennio 1998-2007, quando agli inizi era decisamente sopra la media europea. Nel 2007 quasi due milioni e mezzo di persone sono assolutamente povere (poco meno di un milione di famiglie), cioè incapaci di acquisire un paniere di beni e servizi giudicati essenziali, ed oltre 7 milioni e mezzo di relativamente povere (oltre due milioni e mezzo di famiglie), cioè con una spesa mensile inferiore alla metà di quella media nazionale. Sacche di indigenza così consistenti, concentrate prevalentemente nel Mezzogiorno e in famiglie numerose, non si rilevano in gran parte dei Paesi europei.

Nel lavoro tradizionale in contrazione quantitativa è comparso il ‘working poor’ o ‘in-work poverty’, che qualche decennio prima non esisteva, con un posto fisso non si era mai poveri. Nel 2007 raggiunge l’8,5% in Europa e in Italia arriva al 10% che diventa 19% per chi ha contratti temporanei, rispettivamente 1,5 e 6 punti sopra la media continentale. L’analisi delle 1.126.000 famiglie che nel 2007 sono censite come assolutamente povere mette in evidenza come in quasi la metà dei casi il lavoro sia presente, in prevalenza operaio (circa 300.000 nuclei), meno di natura autonoma (110.000) e di impiegati e imprenditori (93.000). C’è, eccome, ma non è sufficiente a vivere dignitosamente per quei nuclei, in gran parte del Meridione. Le retribuzioni nel periodo 2000-2007 hanno perso 13 punti rispetto alla media europea, con la peggior variazione dell’intero continente, mentre intorno aumentano i costi per beni essenziali, generi alimentari in primis.

Non soffrono meno i nuovi lavoratori, quelli che pioneristicamente Sergio Bologna nella seconda metà degli anni Novanta ha definito ‘autonomi di seconda generazione’, coloro che si sono fatti capitale umano e rappresentano il segmento compiutamente smaterializzato, la più evidente delle discontinuità portate dal postfordismo. Nel 2006 sono 3,5 milioni, per due terzi impegnati a termine e per un terzo collaboratori, rispettivamente con un reddito medio annuo di 12.500 e 10.200 euro. Con la cancellazione della tradizionale separazione tra tempo di vita e di lavoro, eternamente nomadi tra i luoghi della produzione immateriale, sono senza diritto alla maternità, alla malattia, alle ferie, alla cassa integrazione, devono pagarsi i contributi e la formazione, rincorrono mutui inarrivabili e il miraggio di una pensione, abbandonati da una sinistra che si ostina a vederli come uno stato di passaggio e che tanti ne lascia alla retorica iperliberista delle destre, cinica e bara.

Accomunati da destino simile ci sono i titolari di ditte individuali e partite Iva, circa 5,5 milioni di persone che lavorano in microimprese con meno di 3 addetti, che in Italia  sono il 47% dell’imprenditoria complessiva (è un record in Europa). Una parte, circa 1,3 milioni, sono false, imposte dall’esterno, il resto sono imprenditori in realtà schiavi della filiera delle subforniture, spesso con un unico committente. Frutto delle esternalizzazioni, anziché l’emancipazione dal lavoro dipendente hanno ottenuto un sistema di vincoli ugualmente stretti e non si affrancano se non eccezionalmente da ruoli ripetitivi di stampo novecentesco.

Né i ceti medi vivono un periodo migliore. Su circa 19 milioni di persone nel 2008 in 4 milioni denunciano di arrivare con grande difficoltà a fine mese e di non poter affrontare una spesa imprevista di 700 euro; in 3,5 milioni sono stati in difficoltà almeno una volta nell’anno precedente per pagare il cibo, le spese mediche o le tasse; in quasi 6 milioni, proprietari di appartamento, automobile e elettrodomestici, lontani dall’indigenza, sono tuttavia in difficoltà dichiarata e catalogati come vulnerabili. Dentro c’è una fetta consistente di lavoro dipendente, anche di fascia medio-alta, ci sono artigiani, commercianti, lavoratori autonomi in genere. Non guardano all’assistenza, si percepiscono middle class, ostentano un’immagine di benessere ma gareggiano quotidianamente con il declassamento e l’impoverimento. Si indebitano, in genere per la riduzione del lavoro e per affitti/mutui di casa eccessivamente onerosi. Da risparmiatori si sta diventando popolo di indebitati.

Nel composito arcipelago dei ceti medi si accentua la tendenza all’evasione fiscale. Rispetto a 21.660 euro di reddito medio del lavoro dipendente, i lavoratori autonomi nel 2009 avrebbero guadagnato 17.977 euro. In particolare gli imprenditori edili 19.658, i macellai 16.000, gli orefici 14.300, albergatori e ristoratori 13.907, i fiorai 11.900, i parrucchieri 11.400, gli antiquari 10.100, i proprietari di discoteche 5.800 e quelli di centri benessere 3.700. In presenza di un milione di auto di lusso dal valore superiore ai 50.000 euro, di 94.000 barche oltre i 10 metri e di 500.000 sotto, meno di 150.000 dichiarano redditi superiori a 150.000 euro. E’ chiaro che sono dati falsi, altrimenti avremmo già cancellato la dizione ceti medi ed annoverato tutti tra i nuovi poveri!

C’è, infine, un’imprenditoria improduttiva. A testimoniarlo ci sono 8 punti di Pil che dal 1983 al 2005 si sono spostati dai salari ai profitti , circa 120 miliardi di euro, tradotti solo in piccola parte in investimenti produttivi, prevalentemente rimasti flussi per avventure nei circuiti finanziari. Tra il 1996 e il 2005, mentre i salari crescevano solo del 4,8%, i profitti salivano del 15% se si considerano tutte le imprese dell’Industria, del 63% se si guarda alle Grandi Imprese e di quasi il 90% in rapporto al campione delle 1.400 Grandi imprese selezionato da Mediobanca. Dal 1998 al 2007 l’Italia si colloca all’ultimo posto tra i Paesi Ocse per produttività del lavoro e registra un tasso d’investimento sempre inferiore al tasso di profitto, come già dagli anni Ottanta. Dal 2001 al 2005 c’è un misero 1,1% di Pil investito in Ricerca e Sviluppo, rispetto a una media europea del 2%.

Il declino italiano, flagello sociale in basso, ha le proprie radici in alto, in quello che Marco Revelli ha definito efficacemente ‘sciopero del capitale’ postfordista, cioè nella scelta di utilizzare i punti di Pil sottratti al lavoro nei circuiti globali della speculazione, anziché in macchine, tecnologie, ricerca, lavoro. Le aree di crisi del sistema produttivo si sono moltiplicate con la crisi, a Nord come a Sud, per i mancati investimenti nell’innovazione dei prodotti e dei processi, i pochi servizi di assistenza al cliente e la difficoltà a garantire la qualità simboleggiata nei marchi. Impianti spostati all’estero, altri che hanno subito flessioni considerevoli dei margini di profitto, altri ancora in disfacimento: la distesa di fabbriche e capannoni vuoti non dipende dal fatto che tutti siano al ristorante, come nella pessima battuta berlusconiana…

La crisi, per l’appunto, ha colpito un paese già in ginocchio, sottosviluppato. Basti ricordare che tra il 2007 ed il 2008 l’Indice di Deprivazione Materiale aumenta dal 41 al 54%, che crescono le persone che si trovano in arretrato coi mutui dal 4,9 al 7,6%, che aumentano del 15% le persone con ‘grandi difficoltà a arrivare a fine mese’, che dal 2009 siamo un Paese con quasi 8 milioni di relativamente poveri e oltre 3 milioni di assolutamente poveri, cresciuti rispettivamente a 8.272.000 (corrispondenti a 2.734.000 famiglie) e a 3.129.000 (corrispondenti a 1.156.000 nuclei) nel 2010.

I più colpiti, quelli su cui in prima battuta si scarica la crisi, sono ancora gli operai, il ‘residuo solido della società liquida’, seriale, ripetitivo e faticoso. Con l’incidenza della povertà relativa che dal 2008 al 2009 passa dal 14,5 % al 14,9% e di quella assoluta che va dal 5,9% al 6,9%, sono quelli che hanno subito un peggioramento più sensibile. Meno influenti nel determinare cicli storici conflittuali, indeboliti da ristrutturazioni e delocalizzazioni dei cicli, sono sempre più alla mercé del capitale. Che li colpisce feroce, con l’intenzione di strappare ogni barlume d’identità all’antico avversario, anche dopo più di un trentennio dalla conclusione dell’ultimo scontro totale, quello con epilogo la sconfitta operaia davanti ai cancelli Fiat di Mirafiori.

I ceti medi riescono sempre meno a stare sopra la linea di galleggiamento e sprofondano, esplorando pratiche di sopravvivenza sconosciute, con le difficoltà di chi non c’è abituato.

I giovani da vite precarie si sono trasformati in generazione Neet, not in education, employnment or training, cioè oltre a non lavorare 2 milioni di under 30 non sono inseriti in cicli d’istruzione e formazione. Semplicemente stanno a carico dei genitori, a aggravare difficili bilanci familiari. A tanta sfiducia si aggiunge che la metà dei ragazzi 25-34 di oggi arriveranno a meno di 1.000 euro di pensione; quelli fortunati, perché la gran parte dei lavoratori autonomi di seconda generazione non ci arriverà mai. Persino nell’indebitamento c’è dentro una grande questione giovanile: sono oltre il 20%, riescono ad accedere al credito per un’occupazione non precaria, sono però contemporaneamente la parte più debole del mondo del lavoro, con i rischi connessi per il lavoro e la vita.

Le donne, infine, continuano a partecipare al lavoro con una delle percentuali più basse d’Europa e in ruoli poco determinanti. E’ vero che nella crisi sanno sperimentare forme più efficaci di resistenza, come spesso si enfatizza, ma fanno i conti con le conseguenze di quel berlusconismo che ha riportato complessivamente indietro le lancette della storia sul tema della relazione tra i sessi. Come si sia arrivati a questo scempio, come sia stato possibile che un degrado tale coinvolgesse politici, uomini d’affari, imprenditori, come è stato possibile che per trent’anni si sia concesso ad un Presidente del Consiglio di realizzare un suo personale immaginario basato sulla mercificazione del corpo femminile, nelle reti televisive e nelle stanze del potere, rimanda a parte della peggior autobiografia nazionale.

Il quadro attuale è dunque un vero e proprio deserto, un default già avvenuto, segnato sul piano sociale da stenti e su quello economico dall’arretratezza: disuguaglianze crescenti e stridenti; questione giovanile; questione femminile; questione meridionale; questione operaia; frantumazione e retrocessione del ceto medio; dismissione di istruzione e ricerca; questione fiscale; produzione di ricchezza al palo; sciopero del capitale postfordista. Da qui è venuto l’indurimento del carattere sul piano culturale e antropologico, la frustrazione, il rancore, la spietatezza dei penultimi per gli ultimi, l’intolleranza verso le debolezze dei marginali e la simmetrica tolleranza verso i vizi dei potenti. Le destre berlusconiane e leghiste si sono adoperate a fomentare spietate guerre orizzontali, per il loro consenso meschino. Hanno incitato a guardarsi dal rom, dal migrante, dal lavavetri, dal mendicante, dalla prostituta, perché pericolosi per la nostra prospera civiltà, mentre quella stessa andava evaporando! Hanno costruito comunità regressive da nord a sud, in una visione escludente ma identificante di territorio, da difendere da invasori e pericoli. Hanno prodotto esperienze e immagini che vanno annoverate nella peggior storia del Paese, da Adro alla Napoli di Ponticelli, un po’ ovunque, veri e propri pogrom, con pezzi di popolo e media borghesia, i penultimi, a dar la caccia agli ultimi della scala.

Si sono trascinati dietro gli Enti locali, in realtà con furia bipartisan, portandoli in prima linea nella codificazione del razzismo tramite ordinanze, specie nel Lombardo-Veneto. Si sono intromessi nella dimensione individuale, affermando un pensiero reazionario impregnato di fondamentalismo religioso e intolleranza, hanno proseguito l’azione pluridecennale di privatizzazione-svendita di servizi pubblici, di demolizione del welfare, di sostegno al furore neoliberista. Da ultimo, si accingono a incrementare alienazioni del territorio e concessioni edilizie, per racimolare qualche risorsa al mercato selvaggio chiamato federalismo. Proprio nel Paese con la più lunga storia dei comuni, si è andati verso la liquefazione delle istituzioni di prossimità come presidi di civiltà.

A contrastare impoverimenti e derive sul campo non c’è stata la rivolta, che intesa nella radicalità delle forme comportamentali si è spesso situata esattamente dalla parte opposta, nel fuoco purificatore contro gli Ultimi. Si sono mobilitate in prima fila le tante resistenze di pezzi di movimento, di associazionismo, di volontariato, di sindacalismo, della poca borghesia civile rimasta, sfidando insulti e ira popolare. Come ad Opera, cittadina nel milanese feudo della sinistra espugnato dalla Lega Nord, dove prima di cedere sono stati la Caritas e Don Renato a tener testa alla più feroce, duratura ed organizzata delle comunità anti-rom, a fine 2006.

La rivolta l’abbiamo vista impressa sui volti decisi e spesso giovanissimi della primavera araba che da ultimo sta toccando l’Egitto, all’assedio di Wall Street, negli accampamenti madrileni, nella Grecia della disperazione completa. L’abbiamo vista nella consapevolezza collettiva di dover rimettere in cammino la civiltà, nell’affermazione della centralità dello spazio pubblico e dei Beni Comuni, nella verticalità del conflitto, nella non-negoziabilità del diritto al pane, delle libertà personali e della democrazia, per popoli sofferenti con cui si è in connessione sentimentale. In Italia l’abbiamo intravista, dopo le elezioni amministrative già intrise di significative istanze di cambiamento, nei referendum della scorsa primavera con cui 27 milioni di italiani si sono espressi contro nucleare e privatizzazione dell’acqua e dei servizi essenziali. Sembra però che abbia avuto corto respiro, malgrado la grande manifestazione del 15 ottobre scorso, imponente dal punto di vista sostanziale quanto contraddittoria sotto gli aspetti comportamentali e di comunicazione pubblica. Perché senza rappresentanza sociale la rivolta diventa artificiale e si riduce allo sfogo individualistico e di un giorno, alla mimica del conflitto, alla guerriglia urbana che devasta il pubblico ed il privato in una città in cui non applaude quasi nessuno ed in una manifestazione in cui i vicini sono vittime sacrificabili, o addirittura nemici. Il conflitto diventa orizzontale più che verticale, in motivazioni indicibili per il basso profilo politico e per la cecità circa la posta in gioco. Ma non è per questo che, malgrado la vigorosa ripresa di iniziativa, non sono emersi i tratti chiari e forti di un cambio di ciclo storico. Semplicemente non  c’è stata la forza necessaria, ancora, ma l’altra Italia sta lì, in quella vitalità che ha sorpreso e spiazzato tanti e che ha rotto l’egemonia di lungo corso delle destre, sebbene non si sia liberata del tutto dall’ipoteca negativa dell’antipolitica.

Tanti sono i temi da mettere in agenda per la trasformazione, per un’alternativa di società al tempo delle crisi (economica, sociale, democratica, politica, culturale, morale, delle istituzioni), in una Repubblica da rifondare e in un’Europa da dotare finalmente di democrazia costituente. In questo contesto l’alternativa di governo serve eccome, per dare nel breve e nel medio periodo un contributo di sostanza, in risultati concreti, nonché nel lungo per contribuire a scardinare i poteri. L’onda lunga che tutto travolge è purtroppo solo quella delle intemperie di morte e distruzione, dalla Liguria alla Sicilia, in terreni smisuratamente consunti dall’urbanizzazione, per il riscatto nazionale c’è invece tanta strada da percorrere e tanti pezzetti di mosaico ancora da congiungere. Se si nega l’evidenza di questa complessità, se non si inizierà a lavorare concretamente per una alternativa di società, se non si sapranno intrecciare per essa le resistenze, le volontà ribelli, le rappresentanze e le esperienze riformatrici di governo ancora da maturare, se non si accetterà di guardare in ogni direzione, pure nel buio delle carceri, dei misteri storici e delle malefatte poliziesche odierne, degli stadi di calcio dove si restringono le libertà personali prima che dalle altre parti, questo Paese non avrà futuro e la sinistra continuerà a servire a poco e nulla. Come oggi, che troppo balbetta di ingannevoli interessi nazionali, di crescita o ripresa, sembrando orfana degli strumenti di guerra di Fincantieri e Finmeccanica o di altre auto Fiat, desiderosa di Ponti, Mose e Alta velocità, di urbanistica asservita. L’unico percorso ragionevole, nella sua difficoltà, è la complessiva conversione ecologica dell’apparato produttivo, della chimica, della meccanica, dell’energia, nonché dell’agricoltura e degli stili di vita. Allo stesso modo sul piano storico-politico non si esce dalla seconda Repubblica se non imboccando la terza, con all’ordine del giorno un nuovo patto costituente segnato dalle esigenze dell’attuale composizione sociale. Indietro non c’è futuro, le ricette sono scadute, si deve indagare nel buio delle novità, riperimetrare lo spazio pubblico, sostituire un Noi allo smarrimento del sé, rivitalizzare economia, politica e istituzioni, obbligare all’intangibilità dei Beni Comuni. Tra essi, Roma è uno dei più importanti…

…sulla Roma di oggi…

 

Roma è già in sofferenza acuta per la grave crisi economica ed occupazionale e sconta la mancanza di politiche di sviluppo e di sostegno al lavoro e all’impresa.  La stessa macchina capitolina è spesso sull’orlo della paralisi dei servizi, le aziende comunali sono in crisi, il deficit è in crescita, l’economia sommersa si mantiene su livelli ingenti e registra una penetrazione crescente delle organizzazioni criminali. Alemanno non sa né risanare né far debiti, prigioniero di quella foga polemica che l’ha indotto a consegnare il bilancio comunale alla Ragioneria di Stato. Non trova di meglio che affidare direttamente ai portatori di interesse le chiavi del Campidoglio, lo stesso bilancio a Carmine Lamanda, proveniente da Capitalia, l’urbanistica a Marco Corsini, diretta emanazione dei costruttori.

E’ proprio l’urbanistica ad essere sostanzialmente ferma, regna una totale assenza di idee, programmi, progetti. Molti degli interventi già avviati o pronti per esserlo sono al palo, senza apparenti motivazioni se non l’inerzia, come agli ex Mercati Generali e all’ex Fiera, mentre per l’abusivismo edilizio d’impronta speculativa c’è piena libertà d’azione. Lo sviluppo del territorio e degli insediamenti umani è stato sostituito da invenzioni fantasiose e da promesse ai Poteri Forti: si ricordino le vicende di Parco a tema, Agro romano, stadi di calcio, ex caserme, ex depositi Atac, Formula 1, Torbellamonaca, Stati generali, oltre alle aspettative palingenetiche concentrate intorno alla candidatura per le Olimpiadi del 2020. All’Eur e ad Ostia, diversamente che nelle altre parti della città, i business del cemento procedono in maniera più operativa e devastante.

Non c’è manutenzione urbana e non si è in grado di prospettare un minimo di Piano degli Investimenti per nuove opere o per completare quelle in lavorazione nei Municipi, con il risultato di lasciare all’abbandono strade, istituti scolastici, aree verdi, mercati rionali.

E’ in corso un pericoloso arretramento sul terreno dei servizi sociali, che si stanno riducendo a buoni da elargire più simili ad elemosine che a prestazioni professionali, con meno sussidi, contributi ed assistenze e, al contrario, più tasse e rette

Peggiora la mobilità, il senso civico, il decoro e la sicurezza cittadina. La cultura viene di volta in volta maltrattata, ignorata, ridotta, cancellata, perché giudicata inutile e superflua, lo sport derubricato dall’agenda per mancanza di attenzioni o confuso in piani speculativi come per gli stadi. Il progetto di Roma Capitale in mani dilettanti, infine, non riesce nemmeno ad alzare lo sguardo all’area vasta del territorio circostante che contiene porti e aeroporti, né a comprendere l’ovvia necessità dei Comuni metropolitani e del dialogo con la cittadinanza e tutti i Comuni, pure il più piccolo.

Malgrado la pochezza dei risultati conseguiti, malgrado il Sindaco Alemanno e i suoi continuino ad inanellare piccole e grandi figuracce ed a registrare continue difficoltà, malgrado varie volte sia sembrata vicina la crisi definitiva del governo capitolino, non si devono sottovalutare Sindaco e centro destra: né per i danni che ancora possono arrecare alla città in questo periodo residuo, né guardando alle prossime elezioni. Per questo vanno perseguiti congiuntamente due obiettivi: rendere più efficace l’azione di opposizione e di denuncia delle malefatte della Giunta Alemanno e prefigurarne l’alternativa, in un’ipotesi di schieramento di centro sinistra in grado di dar voce alla Roma che sta patendo le scelte, l’inadeguatezza e l’autoritarismo attuali, raccogliendo le indicazioni di tante persone in sofferenza come di organizzazioni sociali, culturali, sindacali, di movimento, di terzo settore, economiche. E’ un percorso irrimandabile, quello della definizione di un’alternativa, di progetti, strategie e persone in grado di interpretarle, indispensabile per un approccio alla città e un profilo politico credibile, l’unico che può garantire margini di autonomia ed indipendenza dai poteri cittadini. E’ un percorso da sviluppare in tempi stretti, prima che i venti nazionali soffino tiranni sulla città e indirizzino verso ipotesi politiche moderate, ignorando esigenze e vissuto cittadino, selezionando personale politico indigeribile come è già successo nell’ultima tornata con la candidatura di Francesco Rutelli.

Dalle esperienze dei Municipi può e deve venire un contributo adeguato in questa direzione, in quanto già in questi anni si mantenuta prioritaria la dimensione del Fare, coniugando l’opposizione ad Alemanno con responsabilità sociale ed azione di governo, rafforzando compagini di maggioranze ed esecutivi locali nel vivo delle difficoltà determinate dalla congiuntura cittadina e nazionale. Come nel Municipio Roma XI, dove l’opposizione a destre pericolose per il corpo e l’anima dei nostri quartieri si è intrecciata costantemente alla costruzione di comunità e al perseguimento di risultati concreti sul terreno della qualità della vita. In una complicata mescolanza di opzioni strategiche e quotidianità, da cui si possono trarre alcune indicazioni.

…dieci spunti per Roma

1)     Tutelare l’Appia Antica e contrastare l’abusivismo edilizio e speculativo, in aree di straordinaria valenza storica, archeologica, naturalistica e paesaggistica, significa parlare di una città che intende crescere a partire dal suo patrimonio immenso, da gioielli come la Regina Viarum, all’insegna della sostenibilità.

2)     Riqualificare pezzi di territorio con demolizione e ricostruzione di edifici, come a Viale Giustiniano Imperatore, significa parlare di una città che ripensa gli spazi integrando le esigenze di rinnovamento edilizio con quelle di qualità della vita.

3)     Prospettare idee progettuali come Metro E, una metro per volare, significa parlare di una città che intende puntare strategicamente a potenziare la mobilità attraverso il riuso, che vale tanto per gli spazi quanto per le infrastrutture e consente di risparmiare in entrambe gli ambiti.

4)     Bonificare e riqualificare porzioni degradate di territorio reperendo ‘creativamente’ le risorse, come si sta facendo alla buca di Via Galba a San Paolo, significa parlare di una città che agisce preventivamente per accrescere il senso di sicurezza sociale, contrastando sia i problemi reali che la percezione.

5)     Istituire il Registro dei Testamenti Biologici e delle ultime volontà di vita significa parlare di una città che allarga la sfera delle libertà personali e dei diritti civili, in controtendenza rispetto alle propensioni autoritarie sintetizzate dal Sindaco Alemanno e dal governo Berlusconi.

6)     Rinnovare la memoria storica dei nostri quartieri e della città tutta, come ogni anno alle Fosse Ardeatine, alla Montagnola e in altri luoghi-simbolo della Resistenza, coinvolgendo le scuole e le nuove generazioni, significa parlare di una città che guarda alle sfide future ed alle contraddizioni crescenti con la consapevolezza del proprio passato e dell’origine della propria civiltà odierna.

7)     Accompagnare fino all’esito positivo la vertenza sulle case di Via Pincherle, congiuntamente al Comitato ed al sindacato Asia, significa parlare di una città che mette l’emergenza e il disagio abitativo ai primi posti dell’agenda politica e che sul tema percorre con decisione strade innovative.

8)     Sperimentare forme innovative di comunicazione istituzionale e pubblicitaria, come si sta facendo tramite n. 3 schermi a led luminosi nel territorio, significa parlare di una città che contrasta attivamente lo scempio di decine di migliaia di cartelloni pubblicitari, causa di pericolo, danno ambientale e danneggiamento di sedi stradali.

9)     Elaborare un progetto dal basso per l’area dell’ex Fiera, con comitati, associazioni e singoli, significa parlare di una città che sostiene strategicamente la partecipazione della cittadinanza alle grandi scelte, in particolare sul terreno socio-urbanistico.

10) Assumere direttamente la gestione di un’area senza personale competente, come è stato fatto per Parco Magnaghi a salvaguardia dell’esperienza socio-culturale Casetta rossa, significa parlare di una città che scommette strategicamente sulla relazione sinergica con le risorse associative locali e sul protagonismo degli Enti municipali.

 

Poi c’è la tanto impegnativa quotidianità, quella in cui si prova a stabilire una sintonia con la miriade di figure che vagano nella metropoli, con il popolo dei migranti, delle marginalità e delle nuove povertà, con quel lavoro manuale ‘residuo solido delle società liquide’, con le generazioni precarie ed il loro eterno nomadismo, con il ceto medio esploso, con l’universo della terza età, dell’associazionismo. Quella in cui si sceglie di contrastare lo smantellamento della sanità pubblica e lo stillicidio quotidiano di sfratti e sgomberi, fino ad arrivare all’adozione di strumenti straordinari come le requisizioni. Quella in cui si opera per rilanciare solidarietà e senso civico, puntando sulle soggettività inclusive all’interno delle comunità locali, per sconfiggere la logica delle guerre dei penultimi contro gli ultimi. Quella in cui si contrasta attivamente la diffusione sproporzionata di agenzie di scommesse e sale giochi, con le nuove dipendenze che generano e che si chiamano gratta e vinci, puntate, slot machine a produrre guasti sociali e familiari, alti ricavi e bassi introiti fiscali. Quella in cui non si rinuncia alle battaglie impari, come nel caso dell’opposizione al Vaticano per il saccheggio ingiustificabile di un patrimonio unico al mondo nell’area della Basilica di San Paolo. Quella, infine, fatta di tematiche complesse come la prostituzione, su cui nella Roma del Vaticano ogni sperimentazione è interdetta e lo zoning rimane parola impronunciabile, con la condanna a reiterare scelte fallimentari.

Si cominci davvero a prefigurare un’altra Roma, a partire dal Fare dei soggetti che la vivono e la subiscono. Noi proviamo a rompere il ghiaccio ed a sollecitare attivamente teoria e prassi. Per Roma, la nostra Roma, l’unica metropoli d’Italia, la città che vive all’aperto e che trova nei sotterranei delle catacombe la propria profondità spirituale, la città dello sventolio dei fasci littori e della terribile cava Ardeatina dove rinasce un cuore democratico, la città ferita e tradita così tante volte da darsi un Sindaco con la croce celtica al collo. E’ il tempo di riprenderla per mano e riportarla fuori dal guado.

 

Andrea Catarci (Sel), Presidente Municipio Roma XI

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