Di seguito trovate il testo dell’introduzione presente sulla pubblicazione della VII edizione del Premio Alviti. Il documentò completo verrà distribuito e sarà disponibile in occasione della presentazione dell’VIII edizione, che si terrà venerdì 23 marzo alle ore 9.30 presso la sala consiliare del Municipio Roma XI, in via Benedetto Croce 50.
I centocinquant’anni d’Italia tra retorica e storia
Si è giunti alla settima edizione del Premio Alviti, l’importante appuntamento a ricordo del sindacalista scomparso nel 2004 voluto da Cgil, Università Roma Tre e Municipio Roma XI, che ormai stabilmente si affianca ai percorsi formali di istruzione dei giovani degli Istituti superiori del territorio. Come di consueto, trascinati dagli Insegnanti e dai Dirigenti scolastici, sono stati in tantissimi a misurarsi con una traccia di rilevante attualità, tanto suggestiva quanto impegnativa: il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Ad accompagnare il lavoro preparatorio c’è stato l’invito a distinguere la realtà dalla propaganda e ad evitare i toni retorici dominanti in tanta parte delle dichiarazioni di personaggi ed uomini politici, per privilegiare il piano della ricostruzione delle parabole contraddittorie dei cicli storici, con le loro incongruenze e la loro problematicità che sfuggono ad ogni impostazione lineare e rassicurante.
Nel dibattito televisivo e mediatico in genere si è messo di sovente al centro la versione distorta della storia nazionale offerta dall’intellettualità nazionalista dell’Ottocento, quella che cercava di stabilire improbabili collegamenti tra il Paese Italia e le esperienze che l’hanno preceduta, risalendo fino ai Romani per poter vantare una grandezza effimera. Un secolo di ricerca ne ha mostrato ampiamente l’infondatezza e la pretestuosità, ma ciò non ha impedito l’ennesimo ritorno in coincidenza con i momenti topici dei festeggiamenti.
A fianco è spesso spuntato il mito “Italiani brava gente”, un’altra di quelle nozioni che non calza per nulla con la realtà di tanti momenti, in particolare con l’annullamento delle libertà personali e collettive, la persecuzione degli oppositori, la produzione di aberranti leggi liberticide, razziste ed antisemite, gli stermini coloniali e le sventure belliche volute da quel Fascismo che ha occupato lo spazio di vent’anni. Come non dà spiegazione dei buchi neri di cui è pieno il prima e il dopo, dai cannoni contro il popolo di Bava Beccaris di fine Ottocento e l’interventismo nel primo conflitto mondiale alle “amnesie” democratiche rappresentate dai tentati colpi di stato e dalle stragi dell’età repubblicana, ancora avvolte nel mistero, con responsabilità chiuse in archivi invalicabili coperti da omissis. L’innocenza non è stata tratto caratterizzante né per lo Stato liberale né per quello Repubblicano, tantomeno per il Ventennio mussoliniano.
Frequente è stato pure il riaffacciarsi della mistica del sacrificio eroico e l’enfatizzazione di aspetti e vicende militari, per relegare tra parentesi quelle culture che erroneamente si intendono deboli, come l’internazionalismo, la solidarietà, il pacifismo, l’europeismo. In realtà si è di fronte ad espressioni forti, di cui è intrisa in profondità la nostra miglior cultura democratica, tanto di impostazione cattolica che liberale, socialista e comunista.
Nazionalismo, Italiano buono e retorica bellicista sono i temi con cui fa di nuovo capolino l’idea della purezza dell’identità italiana, da difendere dall’ “altro” e dal “diverso”, tentazione tossica tanto più pericolosa oggi che altro e diverso sono visibili e materializzati nella nostra società, a seguito di processi migratori in intensificazione e di processi di impoverimento e sgretolamento dei ceti medi. Un recupero acritico del Risorgimento sta alla base dell’impostazione “purista”: presente dalle origini fino al Fascismo, egemone in quegli anni e, infine, sopravvissuta ad esso, come al passaggio dallo Statuto Albertino alla Costituzione.
Il Risorgimento, appunto, l’origine. Quel periodo fondamentale non può essere compreso a fondo se ci si limita a riproporne l’immagine scolastica e superficiale che ruota intorno al protagonismo delle figure canoniche di Vittorio Emanuele II, Mazzini, Cavour, Garibaldi, Pio IX. In un recente spettacolo portato in teatro da Ascanio Celestini (Pro Patria) un ergastolano dialoga a distanza con Mazzini dopo aver letto Carlo Pisacane, Ciro Menotti, Felice Orsini, i fratelli Bandiera, la Repubblica romana del 1849, quella che si volle “senza prigioni e senza processi” e che finì soffocata nel sangue da “quel pezzo di merda” di Napoleone III. Parla in maniera completamente libera, si rivolge a Mazzini senza remore, perché “i morti e gli ergastolani hanno una cosa in comune, non temono i processi, i morti perché non possono finire in galera e gli ergastolani perché dalla galera non escono più”. Gli parla di un Risorgimento inedito fatto di giovani e giovanissimi, di combattenti sconfitti e spesso traditi, di morti in galera, in esilio, in clandestinità. Tale scoperta si allarga al resto della storia patria, con l’età risorgimentale che costituisce solo la prima puntata di una saga nazionale articolata in tre fasi e che ancora continua, Risorgimento, Resistenza e il periodo difficile che arriva al presente. In ogni momento ci sono state tante energie del cambiamento che si sono trovate davanti un nemico sempre identico a se stesso, le classi dirigenti italiche culturalmente inesistenti, strampalate e spietate al tempo stesso, che Celestini rappresenta nel carceriere, in divisa, con il casco della Celere in testa ma con le gambe lasciate scoperte dall’indossare solo le mutande.
Celestini indubbiamente non è uno storico, si può sostenere. Eppure la sua suggestione ripropone quell’insanabile contraddizione che si è evidenziata in molti frangenti ed ha fatto scrivere a un grande studioso antifascista di cultura liberale vissuto nel primo scorcio del Novecento, Piero Gobetti, dell’esistenza di “due Italie”, che non si sarebbero mai incontrate. Da una parte quella ideale, che l’intellettuale torinese vedeva incarnata nella lotta degli operai che aspiravano a farsi classe dirigente di un’Italia più moderna. Dall’altra quella reale, che nella complicità tra vecchi ceti dominanti e nuova borghesia industriale aveva trovato i motivi per perpetuare antichi mali, nel disprezzo della volontà di partecipazione decisionale degli strati subalterni.
Tali problematiche sono rimaste sullo sfondo dei 150 anni, le hanno richiamate pochi storici che hanno lasciato solo un flebile segno. Ci si è rifugiati nelle agiografie più rassicuranti, alimentandole con la propaganda e i riti, fingendo di non sapere (o non sapendo davvero) che così si desertificano le vicende di un secolo e mezzo di Stato unitario. Con il rischio di far la fine dell’ergastolano della rappresentazione teatrale, che fiducioso chiede aiuto a Mazzini e se lo trova di fronte sconfitto e rassegnato. L’altra Italia è lui, un ultimo tra gli ultimi che si esercita nel riscoprire le innumerevoli storie nascoste, negate e dimenticate, vite che a costo di altrettanti sacrifici l’hanno fatta, incompiuta nella sua democrazia. E’ in quest’Italia che vanno ricercate le ragioni e le radici di un vero patriottismo e di un’orgogliosa appartenenza nazionale. Di quest’Italia la curiosità delle nuove generazioni può scoprire le profonde scosse che ha dato al Paese, attraverso l’urto con i piani alti. Di quest’Italia è stato parte anche Armando Alviti.
Andrea Catarci, Presidente del Municipio Roma XI